IL MINORE E IL SUO PROCESSO: QUALE FUTURO Palazzo di Giustizia Sala Conferenze
Paola Lovati *
Prospettive di riforma dell’ordinamento giudiziario minorile
Proposte di riforma della giustizia minorile sono oggetto da almeno un trentennio di un ampio dibattito tra gli operatori del diritto, le numerose associazioni e organizzazioni sorte a difesa dei diritti dei minori nonché in ambito politico.
L’intento di questo incontro è non solo quello di discutere e confrontarci sugli aspetti della giustizia civile a tutela dei diritti dei minori e sulle proposte di riforma, ma anche quello di riflettere sulla “questione minorile” al fine di individuare quali debbano essere le soluzioni ai problemi giuridici sostanziali e processuali , anche con riferimento ai giudizi di separazione dei coniugi e di divorzio.
L’insieme delle idee che riguardano l’infanzia e l’adolescenza, infatti, non possono essere colte isolandole dal contesto sociale e il contesto sociale attuale è tale che è francamente difficile trovare un pensiero unico o largamente condiviso su tutto ciò che concerne la crescita di un individuo: educazione, responsabilità genitoriale, sviluppo, autonomia, protezione.
Il discorso, dunque, non può che allargarsi a tutto il diritto di famiglia stante l’allargamento dei modelli familiari e i nuovi ruoli procreativi determinati dalle moderne biotecnologie.
I recenti tentativi di riforma della giustizia in tema di minori non sembrano invece tener conto della complessità del problema e dei numerosi cambiamenti in atto nella società in quanto tendono a delle modifiche a mio parere di facciata che non danno una soluzione al problema dell’attuazione dei diritti dei minori nel processo e attraverso il processo.
Il problema della giustizia a tutela dei diritti dei minori non è il giudice ma, come da più parti osservato, il processo: da almeno un decennio si sostiene la necessità di una regolamentazione secondo i principi costituzionali del giusto processo nei termini indicati dal novellato art.111 Cost., problema questo che le iniziative di riforma legislativa hanno a tutt’oggi lasciato irrisolto.
Un giudice della famiglia, come previsto dal D.D.L. di iniziativa parlamentare n.2570 ancora in attesa di discussione, inserito in un tribunale ordinario che vede aumentare le sue competenze a organici invariati, finirà infatti ben presto a integrare, specie nei tribunali di piccole dimensioni, collegi penali o a fare sfratti e decreti ingiuntivi. E ciò produrrà un grave danno per la giustizia dei minori nonché un ulteriore aggravamento delle condizioni della giustizia ordinaria.
Per questo la riforma della giustizia minorile diventa un problema di tutti.
Ciò che preoccupa maggiormente è proprio il fatto che le sezioni specializzate previste dal disegno di legge dovrebbero essere composte da magistrati assegnati in via non esclusiva: ciò comporterà un fattore di rischio in ordine all’adeguatezza professionale dei magistrati in considerazione delle specifiche competenze che è necessario avere in questa particolare materia stante la delicatezza degli interessi coinvolti.
Nella relazione al D.D.L. n. 2570 ( ) non viene data adeguata risposta a questa legittima preoccupazione perché la scelta della non esclusività della componente togata viene giustificata con un mero richiamo all’ordinanza della Corte Costituzionale n.330 del 04.11.2003 che, come è noto, nel giudicare la costituzionalità delle norme che prevedono, in caso di necessità, la sostituzione dei componenti togati del T.M. con magistrati addetti alla giustizia ordinaria, ha affermato che “la specializzazione del giudice minorile, finalizzata alla protezione della gioventù sancita dalla costituzione, è assicurata dalla struttura complessiva di tale organo giudiziario, qualificato dall’apporto degli esperti laici”.
Tale tesi non può essere condivisa perché, come giustamente osservato, la relazione trascura di esaminare alcuni aspetti che inducono invece a pervenire a conclusioni opposte. Infatti la questione esaminata dalla Corte Costituzionale era di carattere eccezionale perché sussisteva un caso di incompatibilità per entrambi i giudici togati: nel D.D.L. n. 2570, invece, la non esclusività delle funzioni diventerebbe, almeno nei Tribunali di piccole dimensioni, la regola; inoltre nella previsione del D.D.L. in esame (cfr. art. 5) le materie in cui le sezioni specializzate giudicheranno in composizione collegiale composta da tre membri togati e integrata dalla partecipazione di un componente laico (che potrà facilmente essere messo in minoranza) , si riducono a quelle previste dal libro I, titolo IX del codice civile (sulla potestà dei genitori) rimanendo escluse altre competenze non meno rilevanti quali ad esempio il riconoscimento dei figli naturali.
Come operatori del diritto non possiamo tacere la nostra estrema preoccupazione in ordine a tale proposta di riforma.
La preziosa esperienza e soprattutto la cultura a tutela dei diritti dei minori accumulata nel tempo dai Tribunali per i minorenni rischia in questo modo di essere dispersa sull’onda, mi sia permesso di dirlo, più che altro di emozioni suscitate da fatti di cronaca e non invece da reali necessità.
Altrettanto negativa è la previsione di ridurre la composizione del collegio, sia in materia civile sia in materia penale, ad un solo componente laico stante la palese necessità, nell’attuale situazione di radicale modifica del tessuto sociale e dei rapporti familiari, della presenza degli esperti non togati. Esperti che, come giustamente sottolineato, nel corso di questi anni hanno consentito “un raccordo tra il giudice e la società civile, tra il giudice e il mondo della cultura” insegnando “l’importanza dell’ascolto e della comunicazione, il linguaggio per dialogare con i servizi e con i giovani…la differenza tra autorità e autorevolezza” fornendo “gratuitamente, una formazione e una specializzazione” .
La risoluzione dello stato di “crisi” della giustizia civile a tutela dei minori presuppone modifiche razionali mentre dobbiamo purtroppo constatare che, lungi dal trovare una soluzione lineare e soprattutto unitaria, il legislatore è invece sinora intervenuto in modo frammentario operando aggiustamenti che, non migliorando lo stato delle cose, aggiungono ulteriori incertezze e difficoltà interpretative.
L’introduzione di regole garantistiche infatti era già stata avviata con le modifiche previste dalla legge 149/2001 che ha profondamente innovato la giustizia minorile trasformando le procedure tutelari di volontaria giurisdizione in procedimenti giurisdizionali conformi al modello designato dall’art.111 Cost. La legge prevede la legittimazione processuale del pubblico ministero, l’obbligatorietà dell’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti entro il quarto grado che abbiamo significativi rapporti con il minore, il diritto del minore che ha compiuto 12 anni – e anche di età inferiore se dotato di discernimento – ad essere ascoltato, l’assistenza di un difensore per i genitori ed il minore anche nei procedimenti relativi all’esercizio della potestà di cui agli artt.330,333,336 cod.civ.
Tuttavia la riforma – per ciò che attiene le norme processuali- fu sospesa come è noto in attesa della definizione delle regole sul patrocinio a carico dello stato e fino all’emanazione di nuove disposizioni che regolino i procedimenti di cui all’art. 336 del codice civile.
E il recente D.L. 158 del 24.06.04, passato pressoché in silenzio, ha ulteriormente prorogato al 30.06.05 l’entrata in vigore delle norme processuali, impedendo così sul nascere il diritto del minore ad essere “parte” proprio per l’impossibilità di realizzare quanto si prevedeva nella legge 149/2001.
Sullo stesso tema del difensore del minore il legislatore è nuovamente intervenuto con il disegno di legge governativo n. 4294 del 19.09.2003 “Disciplina della difesa d’ufficio nei giudizi minorili e modifica degli artt.336 e 337 del codice civile in materia di procedimenti davanti al Tribunale per i minorenni” approvato dalla Camera nella seduta del 15 luglio 2004, ma non ancora in discussione al Senato .
In questo panorama di “evoluzione” è necessario fare un accenno anche ai disegni di legge di iniziativa parlamentare in corso di esame congiunto in Commissione Giustizia della Camera (nn. 1916, 2461, 2469, 2703) aventi ad oggetto ”Norme quadro per la istituzione dei difensori dei minori e altre norme a tutela degli stessi”. In essi si prevede la creazione di un nuovo ufficio (definito nel disegno n.2469 “Difensore dei minori” e negli altri “Garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”), con sede centrale e sezioni territoriali, preposto a proteggere i diritti dei minori in ambiti diversi da quelli giurisdizionali, nei quali è già previsto l’intervento di specifici organismi giudiziari, dotato di autonomia e indipendenza nonchè dei necessari poteri di intervento in tutte le sedi nelle quali la tutela dei diritti dell’infanzia possa essere efficacemente esercitata. Funzioni attribuite, oltre quelle primarie della salvaguardia dei diritti e degli interessi dei minori e della vigilanza sulle convenzioni internazionali, sono quelle di ricevere e esaminare denunce, segnalazioni e reclami relativi a violazioni dei diritti di minori, di fornire consulenze al Parlamento, al Governo o agli altri enti pubblici. Vengono inoltre delegate al difensore anche alcune funzioni processuali come quella di rappresentare gli interessi del minore nel corso di procedimenti civili, penali e amministrativi che abbiano ad oggetto le condizioni di vita, il benessere, l’abitazione, lo stato e comunque la tutela del minore. Il disegno di legge n. 2649, a questo proposito, introduce la figura del “Curatore del minore” “nei processi per separazione giudiziale dei coniugi nei casi in cui nel corso delle udienze la litigiosità dei separandi in ordine ai diritti e doveri sui figli sia di controversa soluzione”( ). Previsione quest’ultima del tutto apprezzabile perché viene a colmare un vuoto normativo, ma che dovrà necessariamente essere meglio configurata in sede di discussione: mi riferisco soprattutto alla disposizione che prevede due diverse modalità di nomina del Curatore a seconda che i minori abbiano più o meno di dieci anni, disposizione questa di difficile applicazione in presenza di nuclei familiari aventi più figli minorenni di età diversa.
Le lacune e incertezze dell’attuale quadro legislativo sono dunque a nostro parere esasperate, invece che ridotte, dall’aumento della produzione legislativa effettuato in modo così disorganico con il rischio, tra l’altro, di impedire la concreta realizzazione dei principi di promozione e protezione del minore già da tempo dettate dalla Convenzione di New York e dalle disposizioni contenute nella Convenzione di Strasburgo del 1996, ratificata dalla legge 20.3.2003 n.77.
Riguardo a quest’ultima, è stato giustamente osservato che la Convenzione contiene norme suscettibili di immediata applicazione, tra queste “ da ritenersi autoapplicative e quindi immediatamente applicabili anche alla luce della fondamentale sentenza n.1/2002 della Corte Costituzionale e della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo, spicca l’art. 3, che riconosce al minore un triplice ordine di diritti: diritto all’informazione, diritto all’ascolto, diritto alla spiegazione degli effetti delle decisioni. Lo stesso può dirsi circa l’art. 6, relativo al ruolo dell’autorità giudiziaria, che nella formazione della decisione ha il dovere preliminare di accertarsi della completezza delle informazioni in suo possesso ed in possesso del minore, nonché il dovere di “consultare il minore personalmente” e di tenere nel debito conto la sua opinione. Si tratta di norme che, se applicate in maniera convinta e non meramente formale, sono capaci di incidere profondamente sulle modalità di condurre il processo in materia familiare, dando al minore un’attenzione e uno spazio che sino ad ora gli sono stati completamente negati sia dal legislatore che dall’interprete.”5
In quest’ottica, tra le fonti internazionali, non va dimenticato il nuovo Regolamento Europeo del 27.11.2003 (n.2201/2003), che regola il riconoscimento e le decisioni in materia matrimoniale e di potestà genitoriale, entrato in vigore il 1 agosto 2004 6e che ha abrogato il Regolamento CE n.1347/2000 , ampliandone la portata ed il campo di applicazione, con specifico riferimento al riconoscimento di tutte le decisioni in materia di potestà genitoriale, anche se adottate al di fuori delle procedure di separazione e divorzio o riguardanti figli minori nati da rapporti di fatto. Significativo è il fatto che legislatore comunitario abbia tra l’altro sostituito, nel nuovo regolamento, il termine “potestà” dei genitori sui figli contenuto nel precedente regolamento con il termine “responsabilità” consentendo cosi di disciplinare il diritto di affidamento e di visita anche al fuori delle cause matrimoniali.
Il regolamento non ha portata generale perché esclude dalla sua applicazione i procedimenti relativi alla dichiarazione dello stato di abbandono e all’adozione né disciplina i rapporti tra genitori e figli limitandosi a regolare i rapporti tra gli Stati. Ciò che rileva però è che da esso deriva che l’audizione del minore è condizione per la circolazione delle sentenze matrimoniali o, perlomeno, di alcuni parti di esse negli stati europei.
L’art.23, lett.b, del nuovo regolamento dispone infatti che le statuizioni riguardanti i figli minori non sono riconosciute “se, salvo i casi d’urgenza, la decisione è stata pronunciata senza che il minore abbia avuto la possibilità d’essere stato ascoltato”e ciò ”in violazione dei principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto” .
Con tale disposizione viene dunque ribadito il diritto di difesa e il principio del contraddittorio che, con riferimento al minore, trovano attuazione nel diritto interno dalle norme sull’audizione previste nella Convenzione di New York, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 176/91, e dalla Convenzione di Strasburgo sopra richiamata.
Una possibile strada per uscire dalla crisi in cui versa la giustizia a tutela dei diritti dei minori sarebbe dunque quella di seguire alcune linee essenziali di intervento qui di seguito sintetizzate :
o introdurre un effettivo garantismo nel processo civile a tutela dei diritti dei minori
o recuperare all’autorità giudicante il suo ruolo istituzionale, cioè di autorità terza
o operare l’unificazione delle competenze in materia di minori e famiglia in un apposito Tribunale della famiglia, con elevata autonomia organizzativa e competenza esclusiva, che giudichi in composizione monocratica, collegiale togata e collegiale con l’apporto degli esperti a seconda delle materie trattate : uno dei difetti più deprecabili della giustizia minorile è infatti provocato dall’eccessiva frammentazione delle competenze tra i differenti organi giudiziari, attualmente attribuite, a seconda del petitum, al giudice tutelare, al tribunale ordinario o al tribunale per i minorenni7
o rafforzare la cooperazione con i servizi, in primis quelli sociali, dislocati sul territorio consentendo la concreta attuazione dei compiti loro istituzionalmente conferiti ovvero l’elaborazione di progetti di intervento sociale coordinato per l’intera famiglia del minore in difficoltà
o creare un’ effettiva formazione specialistica multidisciplinare di tutti gli operatori del diritto, dai magistrati agli avvocati
Per concludere sottolineo nuovamente che la riforma della giustizia civile a tutela dei minori non può limitarsi a modifiche solamente ordinamentali.
La riforma degli organi giurisdizionali esistenti o l’introduzione di organi specializzati deve necessariamente essere accompagnata da un radicale mutamento delle forme processuali idonee ad attuare in modo effettivo la tutela dei diritti e degli interessi del minore.
Al di là delle affermazioni di principio, appare infatti impossibile realizzare le garanzie processuali previste dall’art. 111 Cost. del contraddittorio e della parità delle parti in assenza di un procedimento minorile codificato in modo organico.
Non da ultimo ritengo sia un sentire condiviso che per rispondere alla domanda di giustizia di tutti i soggetti coinvolti sia assolutamente necessario sollecitare e propugnare anche mezzi alternativi al processo sviluppando e favorendo le procedure di conciliazione e di mediazione per consentire una efficiente, rapida e adeguata composizione dei conflitti.
Il ricorso alla mediazione familiare rappresenta infatti una modalità di approccio alla soluzione dei conflitti che nessun provvedimento giurisdizionale riuscirà mai a dare perché incide sulla capacità e consapevolezza, anche se guidata, dei soggetti di trovare una risposta personale e condivisa ai loro problemi di relazione.
Tenuto conto infine del profondo mutamento sociale determinato dai flussi migratori dovrà necessariamente essere presa in seria considerazione la necessità di introdurre, anche nell’ambito del processo, la figura del “mediatore culturale”, già prevista peraltro nella legge sull’immigrazione, nella scuola e nei servizi pubblici, affinché faccia da tramite tra la cultura di appartenenza dei soggetti coinvolti ed il giudice onde consentire una corretta valutazione delle personalità di tali soggetti.
Concludo osservando che è impensabile che una riforma di così ampia portata sia attuata senza impegno di risorse finanziarie.
E’ pacifico infatti che oltre ai fondi necessari per attuare il riassetto della giustizia sia necessario finanziare le disponibilità degli enti locali drasticamente ridotte invece nel corso degli ultimi anni.
Solo in tal modo si potranno attuare interventi a sostegno della genitorialità, che costituisce fonte di disagi per il minore quando è inadeguata o conflittuale, nonché interventi a tutela delle esigenze primarie della famiglia.
Il principio guida della giustizia a tutela dei minori è infatti proprio il diritto del minore a vivere nella “sua” famiglia e ciò ancor prima dell’individuazione di un’altra famiglia che lo accolga (principio questo espresso dall’art.1 dalla legge 149/2001 e che ne rafforza la novità rispetto alla normativa precedente ). Occorre però che tale enunciato non rimanga tale ma sia tradotto in reali riforme per attuare le quali è indispensabile, tra le altre cose, che i servizi sociali abbiano le capacità tecniche necessarie per attuare tali scopi e che gli enti locali forniscano i mezzi economici indispensabili ed adeguati a svolgere tali compiti.
GRAZIA CESARO
L’ascolto, l’ assistenza e la rappresentanza del minore.
Il tema che mi è stato assegnato è sicuramente complesso ma stimolante perché a fronte di una normativa interna ed internazionale di sicura non facile interpretazione ed attuazione, ci trova impegnati nell’affrontare problematiche che, pur affioranti nel mondo del diritto, coinvolgono principi etici, sociali e politici riguardo la posizione del minore all’interno della famiglia e della società in cui vive.
Lungo e faticoso è stato il percorso di emancipazione del minore da oggetto di protezione all’interno della famiglia a soggetto di diritti .
Tradizionalmente è l’istituto dell’adozione la vera “cartina tornasole” per esaminare l’evoluzione del sistema di protezione del minore poiché, piu’ di ogni altro coinvolge i rapporti tra il minore e la sua famiglia e consente, come vedremo anche in seguito con il riferimento alla legge 149 del 2001,“fughe in avanti rispetto ai lunghi tempi delle trasformazioni in diritto di famiglia” (Giardina)
Sono state però le convenzioni internazionali la vera “testa d’ariete” per il riconoscimento dei diritti del minore all’interno del processo e ciò già a fare tempo dagli anni 70/80 con le convenzioni internazionali in materia di sottrazione di minori che per prime hanno previsto la necessità di ascolto del minore.
Meno incisiva si è però da subito mostrata l’attenzione del legislatore italiano verso l’ascolto del minore laddove, in sede di ratifica delle convenzione sia nell’art. 6, 2° cpv. che nell’art. 7, comma 3° della l. n. 64/1994: ha preferito usare una definizione piu’ restrittiva di ascolto individuando la formula “sentito…, ove del caso, il minore” e “sentiti…e, se del caso, il minore medesimo”.
Una diversa accezione terminologica che però sottolinea una differenza di significato: l’ascoltare significa prestare attenzione, richiede in chi ascolta, quindi, attenzione verso l’altro, desiderio di capirlo, disponibilità a modificare le proprie opinioni in conseguenza dell’ascolto, ed un contesto adatto, si può ascoltare anche il silenzio, mentre il sentire è solo funzionale ed è un recepire asettico (Fadiga)
Ed è importante sottolineare questo passaggio perché racchiude l’orientamento che seguirà il nostro legislatore in sede di ratifica delle convenzioni internazionali in materia di ascolto.
Infatti se da un lato le convenzioni internazionali, mi riferisco in particolare alla Convenzione ONU del 1989 ed alla Convenzione di Strasburgo del 1996, continueranno nel percorso di promozione della partecipazione attiva del minore all’interno del processo, dall’altro il nostro legislatore continuerà ad attribuire all’ascolto una portata residuale frammentaria, sicuramente relegata a casi particolari e necessitati.
I motivi di questa “ritrosia” traggono origine, secondo gli interpreti, da una pluralità di considerazioni:
– l’ascolto necessita di competenze specifiche di cui il giudice non sempre dispone ;
– il minore può subire turbamento dall’entrare in contatto con la realtà giudiziaria (aula, giudici, forme , interrogatori, avvocati);
– il minore viene eccessivamente responsabilizzato nella lite familiare e si trova di fronte ad un “conflitto di lealtà” nei confronti dei genitori;
– il minore è, in via di principio, un testimone “difficile” ed “inattendibile” perché facilmente suggestionabile, influenzabile (c.f.r Trib Napoli, ordinanza 22 febbraio 1985, in diritto di famiglia e delle persone anno XIV, 1985, pp 617 -619, Procura della repubblica presso il Tm. dell’Acquila, 19 novembre 1993, Diritto di famiglia e delle persone, anno XXIII, 1994, pag.689-691.)
La Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge n.176 del 27 maggio 1991, prima, e la Convenzione di Strasburgo del 1996 (ora ratificata con legge 20 marzo 2003 n. 77) hanno raggiunto un altro importante traguardo: non soltanto hanno riconosciuto al minore il diritto all’ascolto con il richiamo espresso all’art.12 della Convenzione di New York, ma hanno specificato, promosso e reso attuabile la realizzazione del diritto stesso di completa partecipazione del minore ai processi che lo riguardano a secondo della capacità di discernimento dello stesso.
In particolare la norma di cui all’art. 3 della Convenzione di Strasburgo prevede un vero e proprio “ascolto informato” con la specificazione dei noti criteri guida di esaustività dell’ascolto.
Naturalmente non può non riconoscersi come l’immediata applicabilità di tali norme (secondo l’interpretazione della nota sentenza della Corte Costituzionale 1/2002 che attribuisce a dette norme portata precettiva all’interno dell’ordinamento) richieda preliminarmente la corretta definizione delle categorie in esse richiamate prima fra tutte la capacità di discernimento del minore.
Detta categoria è ancora in definizione nel nostro ordinamento sebbene il suo utilizzo fosse stato introdotto in ambito penale dal codice Zanardelli all’art. 54 ,con limite di età inferiore per l’imputabilità minorile, termine poi sostituito dal Codice Rocco, con il concetto di capacità d’intendere e volere, tradotto dagli interpreti nella categoria di “maturità del minore”.
In via generale la capacità di discernimento si considera acquisita dopo i dodici anni ma non è certo escluso che minori ben piu’ piccoli, anche di sei-otto anni, possano rappresentare validamente la propria idea rispetto al loro mondo affettivo ed al genitore con il quale preferiscono stare piu’ vicini.
La categoria è complessa è certo porrà agli interpreti le stesse difficoltà in termini di implementazione uniforme già sollevate con il concetto di maturità del minore, categoria sulla configurazione della quale gli esperti hanno espresso disagio perché obbliga a restringere in categorie giuridiche ciò che, per sua natura, appartenendo al mondo dell’evoluzione psicologica del minore, non ha confini prestabiliti.
Inoltre mentre il concetto di maturità viene correlato alla capacità del minore di comprendere il significato anche morale dei propri atti delittuosi ed autodeterminarsi , il concetto di discernimento dovrà essere ancorato ai vissuti e bisogni affettivi ed emotivi del minore ed alla sua capacità di comprenderli e rappresentarli.
Peraltro non si può non sottolineare come il principio dell’ascolto del minore sia stato sicuramente meglio applicato e piu’ tutelato nell’ambito del diritto penale e forse proprio da tale esperienza possiamo trarre spunti interessanti ed interpretazioni applicative.
Il tema è affascinante e sicuramente necessiterebbe di maggiore approfondimento ma è certo che dall’esperienza del processo penale minorile si è evidenziata la necessità di procedere all’ascolto del minore rispettando i seguenti parametri:
– la minima offensività dell’audizione, con rispetto dei tempi del bambino della sua situazione emotiva, delle sue esigenze temporali (audizioni non troppo lunghe) e fisiche (generi alimentari ma anche di conforto affettivo come giocattoli, matite per disegnare etc.)
– l’utilizzo di modalità particolari di ascolto con la predisposizione di audizione protette che sottraggano il minore dalla dialettica processuale e con l’intervento di esperti , nelle situazioni piu’ complesse , e comunque sempre con l’utilizzo una terminologia adeguata e un atteggiamento empatico, di disponibilità all’ascolto e alla comprensione;
– l’attenzione verso il comportamento anche non verbale del minore: il silenzio spesso è una risposta e le reazione emotive, soprattutto nei casi di violenza, dicono molto di piu’ di tante parole ;
– l’attenta verbalizzazione e videoregistrazione dell’audizione proprio per poter esaminare complessivamente l’audizione non solo nel suo contenuto verbale;
– la puntuale spiegazione al minore di ciò che sta accadendo all’interno del processo (spiegazione dell’ambiente, dei ruoli, delle decisioni) con terminologia adeguata e ciò sia nei processi in cui il minore è parte offesa, sia nei processi in cui è imputato (art. 1 dpm 488/88).
Tali principi a nostro avviso dovrebbero essere puntualmente codificati anche nell’ascolto del minore in ambito civile, e non possono essere lasciati alla sensibilità del singolo giudice o alla creazioni di prassi.
Sotto diverso profilo la Convenzione di Strasburgo, come detto, con l’obiettivo di promuovere in ogni sua forma la partecipazione del minore, oltre all’ascolto ha previsto agli art. 4 e 9 il diritto del minore di avere un suo rappresentante all’interno del processi che lo riguardano, qualora vi sia conflitto di interessi con i genitori.
Tale norma convenzionale ha da subito imposto due ordini di problemi: il primo relativo all’individuazione dei procedimenti che riguardano il minore risolto con la legge 20 marzo 2003 n. 77 di ratifica di detta convenzione, che, per vero ha reso operante la convenzione stessa in giudizi residuali ma, non anche, come ci si aspettava, nelle piu’ importanti discipline in materia di diritto di famiglia, come la separazione il divorzio, l’esercizio della potestà e l’adozione, contrariamente agli altri paesi rappresentati, ed il secondo relativo alla rappresentanza ed assistenza del minore stesso, questione questa di ampia portata.
Molto si discute infatti se la rappresentanza del minore all’interno dei processi che lo riguardano, conseguente alla incapacità processuale dello stesso, debba avvenire per mezzo di un curatore speciale, come previsto da numerose norme codicistiche prime fra tutte l’art. 78 c.p.c. e 320 c.c., oppure, unificando le figure di rappresentanza ed assistenza, per mezzo dell’avvocato del minore come previsto dalla nuova legge sull’adozione L. 149/2001, ovvero di entrambi.
La legge 149 , la cui entrata in vigore per quanto attiene alle norme procedurali è stata paralizzata dal D.L.158 del 24.06.04, ha fissato alcuni principi:
1) l’avvocato del minore è previsto in ogni procedimento relativo a questioni di potestà e non solo in caso di conflitto di interessi, e questo se per alcuni è l’ovvia conseguenza della natura dei procedimenti aventi ad oggetto condotte pregiudizievoli dei genitori nei confronti dei figli, per altri istituzionalizza almeno sul piano simbolico il conflitto di interessi (Morandi, 2003)
2) il principio di obbligatorietà della difesa tecnica del minore
3) la nomina di un avvocato a prescindere dalla capacità di discernimento del minore.
Le problematiche che questa impostazione solleva sono molteplici, prime fra tutte il rapporto tra avvocato e curatore del minore.
Ed infatti se da un lato la 149 si riferisce esclusivamente alla figura dell’avvocato del minore, che va a sostituire anche il tradizionale curatore del minore nel procedimento di adozione, dall’altro non può non considerarsi come fra i principali disegni di legge attualmente in discussione , sia prevista nuovamente la figura del curatore speciale nei procedimenti di separazione e divorzio in caso di grave conflittualità tra i genitori mi riferisco in particolare al Disegno di Legge 2649 dell’11 dicembre 2003 dei Senatore Bucciero e Caruso “ Norme quadro per la istituzione dei difensori dei minori e altre norme a tutela degli stessi “ .
Peraltro nella relazione introduttiva al D.L citato si precisa che il curatore è scelto tra gli avvocati con il preciso obiettivo di “attribuire al minore la qualità di part , a cui consegue l’individuazione per la sua tutela, di un tecnico che possa rappresentarne gli interessi in ogni sede “
In tale modo si istituzionalizza la figura del curatore avvocato, figura che nella prassi ha già suscitato perplessità , poiché da alcuni si preferisce la figura del curatore “puro” individuato in persona con rapporti affettivamente significativi con il minore o istituzionalmente preposta alla sua tutela quale un assistente .sociale.
Mentre nel D.L 4294 nel testo recentemente approvato alla Camera sulla , “Disciplina della difesa d’ufficio nei giudizi civili e minorili a modifica degli art. 336 e 337 del c.c. in materia di procedimento avanti al T.M.” viene reintrodotta la figura del curatore del minore senza specificazione alcuna sulle sue qualità.
E se non è dunque possibile oggi discutere sui modelli prescelti dal legislatore proprio in considerazione dell’esistenza di diversi disegni di legge “in costruzione” e dunque suscettibili di modifiche, non ci si può esimere dal sottolineare come la confusività sulla differenza terminologica tra avvocato e curatore, di fatto sollevi molte perplessità, perplessità evidenziate anche dall’esperienza straniera.
Negli Stati Uniti ad esempio ove vi è un’esperienza ormai trentennale in tema di rappresentanza dei minori, le associazioni nazionali maggiormente rappresentative degli avvocati specializzati nel diritto di famiglia e minorile la National Association of Counsel for Children (NACC) e la American Bar Association (ABA) da tempo dibattono sul diverso ruolo dell’avvocato distinguendo tra il modello dell’avvocato curatore speciale (the attorney/GAL), noto anche come modello ibrido, ed il modello dell’avvocato in senso tradizionale (the traditional attorney) (Marcucci, 2003).
Nel primo caso l’avvocato ha completa autonomia e libertà nello scegliere l’interesse del minore, nel secondo caso è vincolato alle direttive del cliente che potrà essere il minore o il suo curatore.
Dalla scelta dell’uno ovvero dell’altro modello discende una particolareggiata codificazione degli standard di comportamento dell’avvocato.
Ora che tipo di modello ha in mente il nostro legislatore quando disciplina la normativa sull’avvocato e/o curatore del minore?
Ad esempio: cosa dovrà fare l’avvocato del minore quando non sarà possibile avere alcun mandato espresso dal suo assistito (per minore età o incapacità di discernimento)?
Oppure quando la volontà espressa dal suo assistito si porrà in netto e palese contrasto con i suoi interessi ?
Ci riferiamo ad esempio ai casi di abuso intrafamiliare nei quali la parte offesa rende dichiarazioni contrarie al suo interesse per salvare un familiare , o in caso di separazione dei genitori quando un minore è letteralmente plagiato da un genitore o come dicono gli esperti soggetto ad ”alienazione genitoriale”?
O ancora, quando ravviserà la necessità di farsi assistere da un consulente per avere conforto sulla volontà del minore, o sulla sua capacità di discernimento?
In questo caso la nomina di uno psicologo prescelto dal difensore non potrebbe porsi in contrasto con il diritto del genitore di scegliere i trattamenti sanitari ai quali sottoporre il figlio?
E piu’ in generale, che tipo di rapporto potrà avere l’avvocato del minore con i genitori del suo assistito: solo processuale o extra processuale?
Le comunicazioni potranno avvenire separatamente con l’uno ovvero con l’altro genitore o, nel rispetto di un ipotetico contraddittorio, dovranno avvenire sempre alla presenza di entrambi i genitori, ovvero alla presenza dei rispettivi difensori di questi ultimi, anche in sede extraprocessuale?
Potrà raccogliere liberamente informazioni nella comunità in cui il minore risiede, in via stragiudiziale, o sarà soggetto a limitazioni che importano che l’acquisizione di tutte le informazioni avvenga in sede processuale nel rispetto del principio del contraddittorio ?
Ma ancora, come potrà individuare l’interesse del minore senza eccedere in paternalismi e sentimentalismi e dunque ricercare questo interesse secondo una valutazione oggettiva e non soggettiva evidenziata dagli americani con il termine the child’s legal interest i c.d. legali interessi del minori .
Mi spiego: sarà possibile individuare interessi che , aldilà della espressa volontà del minore, potranno comunque essere perseguiti dall’avvocato (quale il suo benessere, il diritto di crescere all’interno della propria famiglia etc.) e ciò anche senza l’intermediazione della figura del curatore?
Esisteranno poi altri interessi peculiari che il difensore dovrà comunque perseguire: quali il principio di minore offensività del processo, di esaustività delle informazioni fornite al suo assistito, di particolare competenza per potersi relazionare al proprio assistito, e soprattutto di stemperamento della conflittualità o di vera e propria mediazione , ove possibile
E’ evidente pertanto che non sono sufficienti a disciplinare la nostra professione di avvocati del minore le norme già previste dall’attuale codice deontologico e qui richiamabili, quale il dovere di lealtà e correttezza previsto all’art. 6, il dovere di segretezza e riservatezza previsto dall’art. 9, il dovere di competenza previsto dall’art. 12, di aggiornamento professionale di cui all’art. 13, il dovere di verità previsto dall’art. 14, poiché molte altre situazioni sono da disciplinare.
Diventa urgente studiare al piu’ presto norme deontologiche, standard di comportamento per l’avvocato del minore, in una materia nella quale si accentuano così tanto i profili di discrezionalità dell’avvocato e quindi di responsabilità per la particolare soggezione psicologica del nostro assistito e l’ interposizione di soggetti portatori di interessi diversi. (Marini, 2004) .
E’ altresì evidente come accanto alla predisposizione di un codice deontologico, o forse ancor prima, solo la particolare specializzazione e formazione dell’avvocato del minore potrà rendere davvero operativa questa figura.
Come è noto per la formazione del difensore d’ufficio penale minorile la legge 448/88 all’art. 15 disp. Att. prevede che la tradizionale formazione giuridica venga estesa anche alla “problematiche dell’età evolutiva” prevedendo così il principio di multidisciplinarietà della formazione dell’avvocato, principio che deve necessariamente venir attuato anche per il difensore in sede civile e non sembra essere richiamato dalle normative citate.
E’ infatti evidente come sia di particolare importanza la capacità dell’avvocato di sviluppare una capacità comunicativa e competenza relazionale che gli permetta non solo di relazionarsi con il proprio assistito ma , anche di “dialogare con la famiglia, interagire con i servizi… sviluppando con tutti questi soggetti un rapporto di collaborazione sinergica, anziché di contrapposizione” (Maestiz, Colamussi, 2003)
Una formazione che dovrà avere come obbiettivi solo il “sapere che”, -le tradizionali nozioni -, ma anche e soprattutto il “sapere come” con l’utilizzo di tecniche di simulazione quali role-playing, modeling, tecniche tutte già sperimentate nei corsi di formazione per difensori d’ufficio minorili organizzate dall’Ordine degli Avvocati, per dare a noi avvocati degli strumenti concreti per monitorare i comportamenti difensivi sia in sede di colloquio con il minore che processuale e le modalità decisionali.
E’necessario dunque che la formazione dell’avvocato minorile si prefigga questi obiettivi:
a) una maggiore comprensione dei fenomeni personali ed interpersonali soprattutto con riferimento alle problematiche minorili;
b) l’approfondimento del ruolo del giurista relativamente ai suoi mezzi, ai suoi scopi ed ai suoi limiti
c) l’esame dei rapporti con altre professioni
d) la promozione di capacità introspettive nei rapporti interpersonali tali da valutare le risposte appropriate sia in senso interpersonale sia in senso giuridico
e) l’aumento della consapevolezza del significato etico della propria professione
(Gulotta, 2003)
Come è stato infatti sottolineato l’avvocato del minore deve avere un nuovo concetto di “vittoria”: ”vince chi sa fare il gioco di squadra, chi sa accoppiare la competenza legale a quella sociale” ed il difensore ha bisogno di una particolare formazione perché gli sono assegnati “compiti estremamente complessi che non possono essere lasciati all’intuito dell’improvvisazione o del momento “(De Cataldo Neuburger, 1989).
Difendere un minore vuol dire dunque acquisire nuovi paradigmi professionali .
Siamo noi avvocati per il rispetto di una funzione e di una responsabilità che da professionale diviene sociale, e senza la possibilità questa volta di delega al legislatore o ad altri, a dover in primis cominciare a pensare come operare, perché la difesa dei soggetti piu’ deboli uno dei principi fondamentali delle società civili.
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