LA SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE DI MINORI
La sottrazione internazionale di minori
Negli ultimi decenni, in Italia, i casi di sottrazione internazionale di minori sono in costante aumento. Il Ministero di Grazia e Giustizia, Ufficio per la Giustizia Minorile, ha notizia di circa 120 casi l’anno, di cui 80 relativi a minori italiani trasferiti all’estero e 40 riguardanti minori stranieri illecitamente portati in Italia.
Il fenomeno, pur coinvolgendo altresì molti connazionali trapiantati all’estero da più di una generazione e desiderosi di far ritorno con i propri figli in Italia, costituisce soprattutto una diretta conseguenza dell’aumento dei flussi migratori in Europa, avvenuto a seguito dell’apertura delle frontiere, che hanno portato alla formazione di coppie “miste”.
Tali unioni sono spesso caratterizzate da un’elevata conflittualità dovuta alle differenze socio- culturali e religiose, che raggiunge il proprio acme con la sottrazione del figlio da parte di uno dei due genitori, perpetrata allo scopo di trasferirlo nel proprio Paese d’origine.
Il problema è particolarmente complesso ogni volta che la sottrazione internazionale interviene quale aspetto esasperato della patologia familiare tra coniugi appartenenti a diverse fedi religiose.
Si fa riferimento in primo luogo alle sempre più frequenti unioni di Europei con partner provenienti da Paesi islamici, i cui rapporti giuridici sono disciplinati dalla Shari’a, la legge sacra.
Nel diritto islamico il padre è l’unico, tra i genitori, titolare di un potere sulla prole, assai più intenso della potestà prevista nei sistemi occidentali, mentre alla madre è riconosciuto il diritto di hadana, diritto di custodire la prole tenendola presso di sé.
rispettando le indicazioni educative del padre.
Ciò comporta, per esempio, l’inammissibilità dell’affidamento esclusivo dei figli alla madre.
In Italia le decisioni riguardanti il cambiamento di residenza del minore all’estero sono considerate decisioni di maggiore interesse, adottabili perciò solo con il consenso di entrambi i coniugi (art. 155 c.c. e l. 16 gennaio 2003, che nel modificare la normativa disciplinante il rilascio del passaporto prevede che l’autorizzazione del Giudice Tutelare non sia necessaria quando vi è il consenso di entrambi i genitori titolari della potestà).
Quando l’allontanamento dalla residenza abituale del minore si traduce in un vero e proprio abbandono della stessa, con violazione del diritto-dovere di affidamento o di visita dell’altro genitore, il Giudice può intervenire in sede civile, modificando i provvedimenti relativi alla prole conseguenti la separazione o il divorzio (art. 710 c.p.c. e art. 6 l. div.) oppure, in costanza di matrimonio, disponendo misure ablative o limitative della potestà (artt. 330 e 333 c.c.). In sede penale la fattispecie può integrare il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento (art. 388 c.p.) o, più verosimilmente secondo la giurisprudenza, quello di sottrazione di persone incapaci (art. 574).
Tuttavia, quando il genitore che sottrae il minore lo trasferisce all’estero oppure, al contrario, abbandona il Paese in cui è fissata la residenza abituale per portarlo con sé in Italia, le disposizioni di diritto interno risultano poco applicabili ed inefficaci.
La convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 ratificata in Italia con legge 176 del 1991 prevede all’art.11: “1. Gli stati parti adottano provvedimenti per impedire gli spostamenti ed i non ritorni illeciti di fanciulli all’estero. 2. A tal fine, gli stati parti favoriscono la conclusione di accordi bilaterali o multilaterali oppure l’adesione ad accordi esistenti”.
Tra gli strumenti internazionali multilaterali che dunque subentrano al diritto interno al fine di ripristinare la situazione antecedente, quello sino ad oggi più utilizzato è la Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, firmata a L’Aja il 25 ottobre 1980, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 15 gennaio 1994, n. 64.
La Convenzione ha ad oggetto la predisposizione di misure idonee ad assicurare l’immediato rientro del minore nel Paese dal quale è stato allontanato, nonché strumenti atti a garantire la tutela del diritto di visita, prevedendo a tali scopi un sistema processuale che – almeno nelle aspettative dei Paesi firmatari – avrebbe dovuto rivelarsi facilmente accessibile ed estremamente celere.
Un simile risultato è particolarmente gradito se si pensa che la sottrazione risulta per il minore un evento altamente traumatico: una violenza intrafamiliare che turba i suoi processi di sviluppo sia con riferimento alla dimensione psicoemotiva, sia alle sue competenze relazionali.
Il fulcro organizzativo attorno al quale ruota la concreta attuazione della Convenzione è rappresentato dall’istituzione (artt. 6 e 7 Conv.), in ciascuno Stato aderente, di un’autorità centrale – per l’Italia l’Ufficio per la giustizia minorile del Ministero di Grazia e Giustizia (art. 7 l. 64/1994) – che ha la precipua funzione di avviare o agevolare l’instaurazione della procedura giudiziaria del luogo in cui si trova il minore, oltre che di tentare una conciliazione amichevole della controversia e di cooperare, attraverso scambi di informazioni, con le altre autorità centrali.
La Convenzione prevede tuttavia, all’art. 29, la facoltà dei legittimati di adire direttamente le autorità giudiziarie o amministrative competenti in base alla convenzione.
Il presupposto in presenza del quale si ritiene applicabile la Convenzione de L’Aja, secondo quanto dispone l’art. 3, è la “violazione dei diritti di custodia assegnati ad una persona, istituzione o ente, congiuntamente o individualmente, in base alla legislazione dello Stato nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento”.
La nozione di custody che rileva dalla normativa convenzionale prescinde dalla sussistenza di un titolo giuridico e considera l’affidamento come situazione di mero fatto, comprensiva, da un lato, della cura materiale e spirituale del minore e dall’altro del potere di decidere della sua residenza. Il diritto di custodia non deve perciò derivare necessariamente da un provvedimento o da un accordo, ma anche più semplicemente dalla legge, potendo sorgere, ad esempio, per il solo fatto procreativo.
Ciò che conta è che esso sia effettivamente esercitato al momento del trasferimento del minore o avrebbe potuto esserlo se non si fossero verificate tali circostanze (art. 3 lett. b).
Allo scopo di favorire il più possibile il ritorno del minore nel Paese di residenza abituale, la Convenzione prevede delle ipotesi tassative in presenza delle quali l’autorità giudiziaria del luogo in cui si trova il minore può negare il rimpatrio.
Si tratta del caso in cui la domanda di rimpatrio sia incompatibile con i principi fondamentali dello Stato richiesto (art. 20), oppure si dimostri che il ricorrente non esercitava effettivamente il diritto di affidamento o aveva acconsentito al mancato rientro (art. 13, lett.a); quando il Giudice riscontra nel rimpatrio il fondato rischio che il minore sia esposto a pericoli psico-fisici; quando il minore si oppone al ritorno ed ha un’età e un grado di maturità tali che sia opportuno tenere conto del suo parere (art. 13, II comma); infine, quando sia già decorso un anno dall’illecito trasferimento e si dimostri che il figlio si sia già integrato nel nuovo ambiente (art. 12, II comma).
Nonostante l’obiettivo dei Paesi firmatari della Convenzione de L’Aja fosse l’istituzione di un procedimento che garantisse il rientro del minore in tempi brevi, nella sua attuazione essa si è dimostrata eccessivamente lenta e complessa.
Per questa ragione il consiglio dell’UE nel prefigurare le linee del nuovo strumento regolamentare in tema di responsabilità genitoriale, ha avuto modo di chiarire che “il futuro regolamento CEE deve contenere le disposizioni per garantire che il giudice della residenza abituale del minore, competente prima della sottrazione per le questioni relative alla responsabilità genitoriale, mantenga la competenza anche dopo, secondo le modalità definite dal regolamento” precisandosi altresì “il giudice della residenza abituale del minore deve poter prendere una decisione che prevarrà sull’eventuale decisione di non ritorno emessa dal giudice del luogo in cui si trova il minore dopo la sottrazione, in modo da assicurare il ritorno effettivo del minore”.
La materia è quindi stata innovata per gli Stati dell’Unione Europea, come è noto, dalla disciplina contenuta nel Regolamento del Consiglio Europeo n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale (noto come Bruxelles II bis, firmato il 20 ottobre 2003 ed applicato dal 1° marzo 2005).
Tale regolamento ha portata innovativa ed integrativa rispetto alla Convenzione Aja 1980, per quanto riguarda gli Stati della comunità europea ed è ancora in fase di studio per quanto riguarda la sua completa applicazione.
In estrema sintesi può essere qui anticipato che il regolamento 2201/2003, come previsto in sede di linee programmatiche, aumenta la competenza a decidere nell’ipotesi di sottrazione da parte del giudice della residenza abituale ai sensi dell’art. 10.
Inoltre ogni provvedimento di non ritorno di un minore in base all’art. 13 della Convenzione de L’Aja del 1980 deve essere, ai sensi dell’art. 11, immediatamente trasmesso all’autorità giurisdizionale competente o all’autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale. Quest’ultimo emette una decisione che, sebbene sia contrastante con la precedente, prevale su di essa, assicurando il ritorno del minore (art. 11).
Lo stesso articolo 11 del nuovo Regolamento, inoltre, limita i casi di applicabilità delle norme della Convenzione de L’Aja che autorizzano il rigetto della domanda di rientro del minore, prevedendo al quarto comma che un’autorità giurisdizionale non possa rifiutare di disporre il ritorno del minore qualora si dimostri che siano previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno. Esso stabilisce, altresì, che il ritorno non possa essere rifiutato se la persona che lo ha chiesto non ha avuto la possibilità di essere ascoltata.
L’obbligo, imposto dal terzo comma dell’art. 11 all’autorità giudiziaria di emanare il provvedimento “al più tardi entro sei settimane dopo aver ricevuto la domanda” soddisfa le esigenze di maggiore celerità.
Quanto le innovazioni introdotte con il Regolamento sopra citato effettivamente garantiscano una più efficace repressione dell’illecito trasferimento del figlio in violazione dei diritti dell’altro genitore non è ancora dato saperlo: ciò che è certo è che esso, riducendo al minimo indispensabile i motivi di non riconoscimento della domanda, assicurando una procedura rapida e prevedendo, qualora non sia inopportuno in ragione dell’età o del grado di maturità, l’ascolto del minore, assicura una maggiore attenzione per il suo interesse, fine ultimo dell’intera disciplina.
È interessante notare infine che, proprio in riferimento alla celerità delle procedure di applicazione della Convenzione, l’Italia è titolare di un prezioso primato: secondo uno studio comparato, riferito all’anno 1999, curato da ricercatori dell’Università di Cardiff, il 59% delle istanze inviate all’Italia è sfociato o nel ritorno volontario o nel rimpatrio ordinato dal Giudice, contro il 50% della media di tutti i Paesi.
Inoltre l’Italia è stata più veloce delle medie complessive di 84 giorni per un rientro volontario, di 107 giorni per un rientro deciso dal Giudice e di 150 giorni per un rigetto da parte del Giudice.
Grazia Cesaro avvocato del Foro di Milano, vicepresidente camera minorile
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